Come sfruttare i meme nei video pubblicitari senza sembrare fuori luogo

Ci sono cose che si possono fare. E poi ci sono cose che si dovrebbero fare. Usare un meme in un video pubblicitario appartiene a entrambe le categorie, ma solo quando lo si fa con consapevolezza. Perché in un’epoca in cui ogni contenuto vive immerso in un ecosistema iperconnesso, ironico, stratificato, usare un meme non è mai solo una scelta estetica o stilistica: è praticamente un posizionamento. È un atto narrativo che parla non solo al pubblico, ma con il pubblico. e se quel dialogo non è calibrato alla perfezione, il rischio di scivolare nel ridicolo, nel forzato, nell’anacronistico è praticamente certo.
Un meme nei video pubblicitari non è infatti una battuta. È un codice. Un codice collettivo, condiviso, in continua mutazione. È un contenuto che vive di contesto, di complicità, di riconoscimento. E proprio per questo motivo, il suo inserimento in un video pubblicitario comporta un livello di complessità comunicativa molto più alto di quanto possa sembrare. Eppure i brand ci provano. Alcuni colpiscono nel segno. Altri falliscono clamorosamente. Vediamo perché.
Il meme come codice culturale: quando inserirlo in video è una scelta di linguaggio
IE in mezzo a tutto questo c’è la questione vera: perché usare un meme? Che cosa si guadagna, davvero, nel decidere di incorporare nel linguaggio video pubblicitario un elemento nato per vivere altrove, come nei feed informali, nei gruppi Telegram, nei commenti su Reddit o nei duetti su TikTok? La risposta non è semplice. Ma una cosa è certa: quando funziona, un meme ben usato, non solo attira attenzione, ma crea affinità. Genera connessione. E nella comunicazione, oggi, la connessione è tutto. Il punto è che i meme sono materia viva. Non sono elementi decorativi da incollare a un’idea preesistente. Non sono spezie che si aggiungono a fine cottura. Sono parte integrante del modo in cui si costruisce significato nel digitale. Ed è proprio questo il nodo: se inserisci un meme in modo accessorio, come una strizzata d’occhio fuori contesto, finirai per svuotarlo del suo potenziale semantico e del suo universo narrativo. Il meme non è mai neutro. Porta con sé una storia, una temperatura emotiva, un sistema di lettura che può rafforzare o minare il messaggio. E allora il problema non è tanto “possiamo usare questo meme?”, ma “questo meme racconta qualcosa che è coerente con il nostro modo di essere?”. Il pubblico percepisce la stonatura prima ancora di rendersi conto da dove venga. È una questione di tono. Di sintonia. Di autenticità. Un altro errore comune è pensare che usare un meme renda automaticamente un brand giovane, attuale, cool. Ma l’attualità non si compra con una referenza. Si costruisce con coerenza. Con linguaggi che evolvono, sì, ma che restano fedeli a una visione. Usare un meme come scorciatoia per accattivarsi il pubblico giovane è una strategia a doppio taglio: può funzionare una volta, forse. Ma se non è sostenuta da un’identità capace di parlare davvero a quella generazione, diventa una maschera. Una performance. E le performance, si sa, durano poco.
Per questo motivo, inserire un meme in un video pubblicitario significa ripensare l’intero impianto narrativo. Significa costruire un racconto che lo contenga in modo organico, che non ne faccia un elemento decorativo ma strutturale. Significa, in altre parole, cambiare ritmo, cambiare tono. Cambiare postura. Un video che ospita un meme non può più parlare con la voce istituzionale del brand. Deve lasciarsi attraversare da un linguaggio altro. Più poroso. Più giocoso. Più laterale. Ma anche più esigente, perché chi lo conosce (e chi lo riconosce) saprà giudicarlo.Ecco allora che sfruttare i meme in una campagna video non è una questione di tendenza, ma di linguaggio. È la scelta di parlare una lingua che non si può improvvisare e che richiede immersione, ascolto, adattamento. Perché, se parlata con competenza e misura, può aprire porte narrative straordinarie. Ma tutto questo accade solo se il gesto è sincero. Solo se il brand si dimostra capace di prendersi sul serio, senza “prendersi troppo sul serio”, perché il meme non è un prestito, è un’adozione e va filtrata attraverso un proprio valore ed una voce istituzionale. Diversamente non è riconoscimento, ma suscita rifiuto, distanza, fastidio.
La voce del brand nella grammatica del meme: armonizzare identità e cultura digitale
Ogni brand ha un’identità. un codice visivo, un tono di voce, una postura più o meno riconoscibile. Non si tratta di una semplice questione di coerenza grafica o semantica, ma di un’anima comunicativa, una specifica energia che scorre in ogni contenuto, anche quando non viene esplicitata. È quella qualità invisibile che permette al pubblico di riconoscere un marchio prima ancora di leggerne il nome. Ed è proprio questa identità, spesso costruita con anni di investimenti e cura strategica, a rischiare di scontrarsi con la natura fluida e destabilizzante del meme.
E allora come fare a mantenere integra la propria voce mentre si adotta una lingua così mobile, così scivolosa, così imprevedibile? Come si fa a non perdere credibilità, dignità, profondità, nel momento stesso in cui si decide di affacciarsi sulla soglia del virale? La risposta non può essere tecnica, né tantomeno estetica. La risposta è narrativa. È nell’atto del racconto che si può trovare il punto d’incontro tra ciò che è fondato e ciò che è mutevole. Tra ciò che il brand è, e ciò che il meme suggerisce di diventare.
Ogni video pubblicitario che incorpora un meme dovrebbe porsi una domanda di fondo: sto usando questo contenuto per mostrare chi sono o per fingere di essere altro? Perché se la risposta è la seconda, il pubblico lo capirà subito. E non ci sarà montaggio dinamico o call to action persuasiva in grado di salvare il contenuto. Il pubblico digitale, che mastica meme ogni giorno, che li produce, li deforma, li reinterpreta, ha sviluppato un olfatto finissimo per ciò che è genuino e per ciò che è posticcio.
La chiave, allora, non è forzare il proprio brand dentro l’abito di un meme, ma lasciare che il meme diventi una lente temporanea attraverso cui raccontarsi. E il pubblico, se percepisce questa complicità, se intuisce che dietro quella scelta c’è consapevolezza e non smania di visibilità, non solo accetta il gioco, ma vi entra con entusiasmo.
Attenzione, però, non tutti i brand devono essere ironici, non tutti devono rincorrere l’attualità, non tutti possono permettersi un meme. L’identità di marca è una struttura delicata, fatta di riconoscibilità, di valori, di archetipi emotivi e ogni scelta comunicativa che rompe quel sistema deve essere ponderata, motivata, integrata in un disegno più ampio. E se il meme non si inserisce naturalmente in quel disegno, è meglio lasciarlo.Ma quando invece c’è compatibilità, si costruisce la nuova brand equity, non più fatta solo di prestigio e autorità, ma di partecipazione e umanità. Il video pubblicitario smette di essere un messaggio da trasmettere e diventa un gesto da condividere.
Ecco allora il punto cruciale: il meme non è un contenuto da inserire, ma una dinamica da interpretare, una possibilità narrativa e, soprattutto, un invito all’umiltà, rinunciando per un istante alla perfezione per aprirsi al possibile, perché restituisce connessione.
Riconoscere (ed evitare) il cringe nell’uso dei meme
C’è un confine invisibile, ma precisissimo, che separa la leggerezza efficace dall’imbarazzo assoluto e si misura non solo nella reazione del pubblico, ma nel tempo che quella reazione impiega a diventare giudizio. E quando il giudizio prende la forma di un commento sarcastico, di una parodia, di una reazione contrariata, è già troppo tardi. Il contenuto è diventato cringe, imbarazzo. Il cringe, nell’ambito comunicativo, è il sintomo più evidente di una forzatura. È il risultato di un disallineamento tra ciò che un brand è davvero e ciò che finge di essere per rincorrere l’approvazione altrui. Nel video, poi, questo effetto si amplifica. L’immagine in movimento non lascia spazio all’ambiguità: mostra, espone, rivela. Non si può celare dietro un copy ben scritto o un visual statico. Il montaggio, la recitazione, il ritmo, la musica, la grafica: ogni elemento concorre a costruire o demolire la credibilità dell’operazione. E se anche solo uno di questi elementi si presenta come falso, l’effetto è spietato.
Ma cosa genera, esattamente, questa sensazione di imbarazzo? È la distanza tra la pretesa e il risultato, la sensazione che chi ha creato quel contenuto stia cercando, troppo ostinatamente, di chiedere attenzione senza guadagnarsela. Il pubblico digitale è abituato alla lingua dell’ironia, ma un contenuto ironico, per essere efficace, deve avere dentro di sé una verità. Una lucidità, senza cercare di compiacere. Perché l’autenticità non si può mimare. O c’è, o non c’è. Per evitare il cringe, allora, occorre riscoprire il valore della misura. Non tutto ciò che è virale va replicato. Non ogni meme è adatto al proprio tono e la fiducia si perde in un istante, e non sempre si può ricostruire. C’è poi una trappola sottile: l’ansia di essere “rilevanti”, di rincorrere costantemente ciò che accade nella cultura online, di reagire in tempo reale, di mostrarsi “sul pezzo”. Ma la rilevanza vera non nasce dalla velocità, nasce dalla pertinenza e dalla capacità di sapere quando parlare, quando tacere. A volte, essere spettatori attenti è più efficace che inserirsi goffamente in un discorso che non si conosce davvero.
Un buon video che incorpora un meme deve saper gestire questa tensione e trovare il punto in cui l’ironia non scavalca il messaggio, ma lo amplifica. In cui il tono leggero non sminuisce il contenuto, ma lo avvicina. In cui l’elemento virale non diventa pretesto, ma strumento, verso un lavoro di cesello, non di shock value. Quando un brand riesce a maneggiare il meme, il risultato è potentissimo, perché rompe le difese e crea un contatto emotivo che genera empatia.
I meme come forma matura di racconto visivo
C’è un confine invisibile, ma precisissimo, che separa la Alla fine, il meme è solo un mezzo. Un dispositivo narrativo. Naturalmente, tutto questo richiede tempo e richiede studio. E non tutti brand riescono a trovare sia il tempo e sia la possibilità di uno studio e per questo ha senso affiancarsi a partner come una casa di produzione video, perché in grado di trasformare i contenuti aziendali in un gesto capace di parlare il linguaggio vivo della cultura di oggi, con misura e con stile. Ma soprattutto con senso. Perché il meme più efficace non è quello più diffuso, ma quello che funziona meglio con il tono interno del brand e che, una volta inserito nel racconto, sembra inevitabile. Naturale. Perfetto. E quel tipo di perfezione non si ottiene per imitazione, ma per risonanza. Ancora una volta, ribadiamo che la pubblicità non deve più convincere, ma deve avvicinare per generare identità condivisa. E il meme, se utilizzato con intelligenza, è uno dei pochi strumenti capaci di farlo con immediatezza. Non serve introdurlo con un pretesto, né accompagnarlo con spiegazioni. Chi lo riconosce, capisce e si sente parte di questa inclusione narrativa.
Con il tramite di un partner esperto il meme diventa quindi un’occasione, quel frammento di verità leggera che accende la relazione.

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